Con “Rough Line”, prodotto dalla GleAM Records, Angelo Mastronardi, giunto alla sua terza fatica da leader, dimostra uno stile pianistico originale e maturo e una solida sensibilità compositiva, capace di far convivere in modo equilibrato tradizione e sperimentazione.
Recensione a cura di Fabio Caruso
“Rough Line” è il tuo terzo album da leader, dopo “Like At The Beginning” del 2014 e “New Things, Same Words” del 2017. Quanto c’è dei due dischi precedenti in questo nuovo lavoro?
Sicuramente un filo conduttore tra i primi due lavori e l’ultimo è rintracciabile nell’esigenza di esprimere solo il necessario, valorizzando il silenzio e il racconto. Ciò che li differenzia è, invece, un mio cambio di sensibilità rispetto agli equilibri tra scrittura e improvvisazione. Nel primo album la mia attenzione era sulla scrittura e l’improvvisazione si inseriva in un contesto più cameristico per ottenere delle forme episodiche più estese. Nel secondo ho lasciato più spazio all’interplay con una scrittura meno fitta. La sfida era cercare la giusta coesione in quartetto, consolidata attraverso un lungo periodo di prove. Nell’ultimo lavoro ho deciso di conciliare i due aspetti, recuperando un’idea di scrittura ad episodi e, allo stesso tempo, lasciandomi più andare nel flusso improvvisativo, forse anche in ragione di una crescita musicale nel linguaggio jazzistico, su cui continuo a concentrare il mio studio.
In questo album ti sei concentrato molto sulla ricerca ritmica e hai inserito in maniera corposa le sonorità del Fender Rhodes e di sintetizzatori.
Alle volte il suono del piano acustico non è sufficiente per esprimere alcune idee. L’uso del Fender e dei sinth mi ha perciò aiutato ad arricchire la tessitura su alcuni brani. Nel caso delle tracce in solo ho voluto sperimentare le possibilità timbriche del Fender per trovare una nuova forma di completezza, differente da quella offerta dal pianoforte acustico.
Nelle sei composizioni da te scritte (All In My Hands e Ev’rything I Need, giusto per citarne un paio) hai lasciato spazio alla sperimentazione, che, però, è ben inserita all’interno di forme e linguaggi più tradizionali.
Il senso della forma e la sperimentazione sono sempre in funzione della melodia e del discorso che voglio costruire. Sono sicuramente lontano, almeno in trio e quartetto, da forme totalmente aperte. Sul versante improvvisativo, mi piace pensare che si possano ancora trovare nuove strade, conciliando la spontaneità e il rischio con una ricerca più meditata in cui convivano la tradizione del jazz con idee più personali.
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