«ROUGH LINE» DI ANGELO MASTRONARDI, UNA NUOVA LINEA DI DEMARCAZIONE (GleAM Records) di Francesco Cataldo Verrina
Recensione a cura di Francesco Cataldo Verrina
Angelo Mastronardi è un personaggio multiforme: artista e imprenditore, editore e formatore, compositore e fondatore della GleAM records, etichetta particolarmente attenta ai nuovi fermenti jazzistici. La sfaccettata personalità del Mstronardi-pianista si sostanzia talvolta in un ventaglio di stili che abbraccia il jazz classico e contemporaneo, passando per una fusion, talvolta foriera di qualche tentazione rock e soul, altre volte s’immerge in un melting-pot sonoro che legge ad alta voce alcuni recenti linguaggi della BAM e della world-music nell’accezione più larga del termine. Il suo background classico non agisce mai da deterrente, ma piuttosto da aggregante. Il terzo album da band-leader di Angelo Mastronardi, «Rough Line», uscito nel 2020, ci svela senza reticenze quanto il pianista sappia guardare in avanti, senza mai perdere il contatto con lo specchietto retrovisore che lo lega alla tradizione.
Il titolo dell’album, in italiano, può essere inteso anche come «linea guida», la traccia che viene fatta quando bisogna costruire qualcosa che prende forma e si evolve progressivamente, divenendo un’entità concreta: si pensi al muro portante di una casa o ad una strada; per contro l’idea di una «linea grezza», che si affina in divenire per la legge del mutatis mutandis, ci restituisce in toto il concetto di jazz, che non è mai qualcosa di rigido, già definito e tetragono, ma qualcosa di «ruvido» nelle sue componenti essenziali e per sua stessa natura malleabile e plasmabile attraverso un lavoro di rifinitura. Nel caso di un concept sonoro emerge anche l’idea di «rough diamond», ossia di un diamante grezzo, che necessita di un’opera calibrata e precisa, ma che lascia spazio alla creatività del cesellatore. Dall’ascolto di «Rough Line» di Angelo Mastronardi possono scaturire queste come tante altre suggestioni. Passando, dunque, dai sofismi all’aspetto puramente musicale, va detto che in questo terzo lavoro si avverte una maggiore libertà compositiva ed un desiderio da parte del musicista pugliese di marcare quella parte più ruvida e spigolosa del proprio carattere, l’altra faccia di un artista non facilmente delimitabile, poiché predisposto a rivoltare le carte in tavola, per poi ricomporre il mazzo in maniera fluida ed armoniosa.
Dopo la precedente esperienza in quartetto, si ritorna al formato piano trio, che Mastronardi considera più confacente alle sua cifra stilistica: «Le composizioni a cui ho lavorato sono state pensate per questa formazione perché ritenevo fosse giunto il momento per riprovarci, alla luce anche di una certa maturazione(…) Il piano trio offre maggiore libertà per il mio strumento, ma comporta anche una forte responsabilità nel condurre il flusso e la sensibilità di capire quando assecondare le idee degli altri musicisti. Il batterista, Melo Miceli, lo conosco dal 2016. È un musicista straordinario ed estremamente versatile. Abbiamo frequentato insieme le Clinics del Berklee College a Perugia durante Umbria Jazz. Dopo qualche anno siamo riusciti ad accorciare le distanze e a condividere finalmente questo progetto. L’incontro con il bassista, Rogers Anning, è stato casuale». «Rough Line» è un album basato su sei composizioni inedite, tutte a firma Mastronardi, con l’aggiunta di due classici americani «All Things You Are» (J.Kern / O. Hammerstein II) e «Oleo» (S. Rollins). Gli standard sono perfettamente amalgamati ed in sintonia con il mood complessivo del progetto, dove emerge la dichiarata passione del pianista pugliese per la ricerca ritmica e per i tempi dispari fusi a caldo con stilemi new-soul e fast-swing, attraverso un uso più marcato del Fender Rhodes e, in talune partiture, perfino di sintetizzatori.
Le parole di Mastronardi risultano alquanto eloquenti: « Nel primo album la mia attenzione era focalizzata sulla scrittura e l’improvvisazione si inseriva in un contesto più cameristico per ottenere delle forme episodiche più estese. Nel secondo ho lasciato più spazio all’interplay con una scrittura meno fitta. La sfida era cercare la giusta coesione in quartetto, consolidata attraverso un lungo periodo di prove. Nell’ultimo lavoro ho deciso di conciliare i due aspetti, recuperando un’idea di scrittura ad episodi e, allo stesso tempo, lasciandomi andare di più nel flusso improvvisativo, forse anche in ragione di una crescita musicale nel linguaggio jazzistico, su cui continuo a concentrare il mio studio». Il disco si apre con « All In My Hands», che è di per se una dichiarazione d’intenti e di apertura verso la sperimentazione che si materializza attraverso un groove funkified ed il PH acido delle tastiere, le quali aprono uno scenario metropolitano su una fusion ad ampio respiro, che è comunque il tentativo di allargare il quadro pittorico complessivo, ma senza debordare dalla cornice, grazie ad al trattamento dei colori secondo un metodo tradizionale. «Alle volte il suono del piano acustico non è sufficiente per esprimere alcune idee – sostiene Mastronardi – l’uso del Fender e dei sinth mi ha perciò aiutato ad arricchire la tessitura su alcuni brani. Nel caso delle tracce in solo ho voluto sperimentare le possibilità timbriche del Fender per trovare una nuova forma di completezza, differente da quella offerta dal pianoforte acustico».
«Follow Me» è quasi una fuga improvvisativa con il pianoforte che s’invola in più direzioni, dove spontaneità tipicamente post-bop e variabili armoniche si combinano con un ottimo senso dell’orientamento melodico. «Ev’rything I Need» conferma ancora uno stile pianistico completo e maturo ed una ricercata sensibilità compositiva, capace di tenete su un piano paritetico classicismo ed innovazione. «All The Things You Are», standard estrapolato dall’AmericanSongBook, viene restituito al mondo degli uomini attraverso un’esplorazione in solitaria, dove l’uso del piano elettrico non stride al cospetto di un classico, piuttosto lo arricchisce di nuove vibrazioni. « Away From The Scene» è un ibrido con tentazioni fusion molto smooth, in cui il piano danza a passi irregolari su una scansione ritmica dall’incedere cangiante ed imprevedibile. «Oleo» di Sonny Rollins» diventa uno rapido swing in overclocking, dal vago sapore retrò, mentre le note del piano zampillano a fiotti, sospinte da una proterva retroguardia ritmica che ne intercetta con abilità tempi e modi.
«7 H-Our» si sostanzia come un’altra tela di colori misti e frastagliati, impressi nel costrutto melodico-armonico con pennellate lievi ma improvvise, congegnate dall’uso non convenzionale del Fender Rhodes. In chiusura «Even If», un mid-range elaborato in trio con una perfetta confluenza di elementi ritmici che esaltano le varie espressioni pianistiche che si spostano da momenti più dilatati ad altri più ostinati, attraverso rapidi cambi di passo e di umore. Una nota di originalità dell’album è determinata dal fatto che non esiste la classica title-track e che quindi il titolo «Rough Line» nasce quale compendio di un’idea complessiva che descrive il concept nella sua totalità.
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